DALLA LETTERATURA

MILIONI DI ANNI DI VITA IN PIÙ, GRAZIE AI TRAPIANTI
Poco più di 50 anni fa ha avuto luogo il primo trapianto renale di successo al mondo.
Ora, solo negli Stati Uniti, vengono eseguiti più di 16.000 trapianti di rene ogni anno, testimoniando in modo inequivocabile il grande sviluppo di questa insostituibile pratica terapeutica.
In questo studio i ricercatori hanno analizzato 25 anni di attività trapiantologica per determinare il numero di anni di vita che sono stati restituiti grazie al trapianto.
Il team di ricerca, guidato dal Abbas Rana del Baylor College of Medicine di Houston, ha pubblicato i risultati su JAMA Surgery.
Dallo studio si apprende che negli Stati Uniti ogni giorno circa 79 persone ricevono un trapianto d’organo. Per contro, ogni 10 secondi una persona viene inserita in lista di attesa per riceverne uno.
Il trapianto è normalmente l’unico intervento efficace per il trattamento dell’insufficienza d’organo terminale: ciò significa che la vita di migliaia di persone dipende letteralmente da questa procedura.
Le statistiche, fino all’inizio di dicembre 2012, rivelano che dei pazienti che hanno ricevuto un trapianto di cuore, circa il 70% era in vita a 5 anni dall’intervento. Per i pazienti che hanno invece ricevuto un trapianto di rene da un donatore vivente, a cinque anni dalla procedura ne erano vivi più del 92%.
“Con risultati come questi non c’è da stupirsi se i trapianti vengono definiti come la meraviglia della medicina moderna”, commenta Rana.
Il team di ricerca ha voluto quindi approfondire i benefici di sopravvivenza del trapianto per determinare quanti anni di vita esso ha restituito ai pazienti americani tra il 1987 e il 2012.
Per fare questo gli autori si sono serviti del database della United Network for Organ Sharing (UNOS) che ha la “contabilità” di tutti i trapianti di organi solidi svolti negli Stati Uniti, così come i record di pazienti inseriti in lista per trapianto.
Hanno quindi esaminato le registrazioni di 1.112.835 pazienti con insufficienza terminale d’organo. Di questi, 533.329 hanno ricevuto un trapianto e 579.506 sono rimasti in lista d’attesa.
I ricercatori hanno quindi calcolato il numero di anni di vita restituiti tra il 1° settembre 1987 e il 31 dicembre 2012, confrontando la sopravvivenza dei pazienti che hanno avuto il trapianto con quella di coloro che non l’hanno ricevuto.
I risultati dello studio hanno rivelato che, in un quarto di secolo, il trapianto di organi ha restituito complessivamente 2.270.859 anni di vita ai pazienti degli Stati Uniti e che ogni trapianto ha permesso di guadagnare circa 4,3 anni a ciascun paziente.
Nel dettaglio, per ciascuna tipologia di trapianto, gli anni di vita restituiti ai pazienti che ne hanno beneficiato sono stati: per il trapianto di rene, 1,3 milioni di anni, per il trapianto di fegato, 465.296 anni, per il trapianto di cuore, 269.715 anni, per il trapianto di rene-pancreas, 79.198 anni; trapianto di polmone 64.575 anni, per il trapianto di pancreas, 14.903 anni e per il trapianto d’ intestino 4402 anni.
I ricercatori definiscono i circa 2,3 milioni di anni di vita restituiti ai pazienti una “realizzazione stellare”, aggiungendo che tale analisi riporta sinteticamente l’esperienza collettiva del trapianto di organi solidi negli Stati Uniti, rendendo lo studio la più grande ricerca di questo tipo mai condotta nel campo del trapianto.
Questi risultati smentiscono qualsiasi percezione del trapianto come un settore di nicchia della medicina con benefici pratici limitati. Inoltre, concentrandosi esclusivamente sul beneficio di sopravvivenza, lo studio non evidenzia i grandi miglioramenti della qualità della vita o delle morbilità drasticamente ridotte dopo un trapianto.
I ricercatori sottolineano ancora una volta che l’unico ostacolo al progresso della disciplina è rappresentato dalla carenza di donatori.
Si noti infatti che dei pazienti in lista d’attesa nel periodo preso in esame (25 anni), solo il 47,9% ha ricevuto il trapianto.
Attualmente risultano in lista 123.258 persone a fronte dei circa 30.000 trapianti effettuati nel 2013. Un divario ancora enorme e insoddisfacente, soprattutto perché ogni giorno circa 18 persone muoiono in attesa dell’organo.
Sapere che le conoscenze e il progresso scientifico hanno portato l’umanità ad avere una procedura in grado di curare migliaia di pazienti ogni anno e avere la consapevolezza di non poterle soddisfare tutte è veramente drammatico.
Bibliografia
Rana A, Agopian VG, Kaplan B, et al. Survival Benefit of Solid-Organ Transplant in the United States. JAMA Surg 2015 Jan 28. [Epub ahead of print]



IL “GAME-CHANGING” DELLA CONSERVAZIONE DI TESSUTI
Attualmente viene buttato via circa l’80% del tessuto donato per le sostituzioni articolari perché lo stesso non sopravvive abbastanza a lungo per essere trapiantato.
Ora, come illustrato in un recente studio dell’Università del Missouri, i ricercatori hanno sviluppato una nuova tecnologia in grado di raddoppiare la vita del tessuto. Questo nuovo metodo è stato in grado di preservare la qualità dei tessuti donati migliorandone l’utilizzo.
I ricercatori lo hanno definito un “game-changer” perché permettendo una maggiore disponibilità degli stessi e una riparazione più naturale delle lesioni, cambia completamente lo scenario con innegabili vantaggi per i pazienti.
La tecnologia, denominata Missouri Osteochondral Allograft Preservation System (MOPS), raddoppierebbe la durata di conservazione di ossa e cartilagine di donatori rispetto al metodo di conservazione corrente utilizzato dalle banche tessutali.
I metodi tradizionali prevedono la conservazione dei tessuti donati in un’unità di refrigerazione di grado medio in sacchetti sigillati riempiti con una soluzione di conservazione standard. Il MOPS utilizza, invece, una soluzione di conservazione di nuova concezione e particolari contenitori progettati appositamente dalla Missouri University che permettono ai tessuti di essere conservati a temperatura ambiente.
Nello studio sono stati valutati e raffrontati i risultati clinici del metodo di conservazione standard con la nuova tecnologia MOPS. Con l’approvazione istituzionale dell’Animal Care and Use Committee, 16 cani adulti sono stati sottoposti a trapianti di condrociti per lesioni osteocondrali del condilo-femorale mediale. I ricercatori hanno osservato che, utilizzando il metodo MOPS, la durata della conservazione dei tessuti donati può essere estesa ad almeno 60 giorni, contro il tempo di conservazione attuale di circa 28 giorni.
“Il tempo è un fattore determinante quando si tratta di utilizzare i tessuti donati per ricostruzioni comuni”, ha detto James Cook, autore della ricerca e direttore del Comparative Orthopaedic Laboratory della Missouri University.
“Con l’approccio di conservazione tradizionale abbiamo circa 28 giorni dal prelievo dal donatore prima che gli stessi non siano più utilizzabili per l’impianto nei pazienti: la maggior parte di questa finestra di tempo viene utilizzata per testare i tessuti e assicurare che siano sicuri per l’uso. Questo riduce la possibilità di identificare un ricevente appropriato, calendarizzare l’intervento e inviare il tessuto per l’innesto”.
Gli innesti di tessuto da donatore sono stati utilizzati per molti anni come un modo per riempire le zone danneggiate di un giunto, in alternativa alla rimozione dell’osso o all’impianto di componenti metallici e plastici.
Ma i pazienti con protesi di metallo e plastica sono spesso costretti a rinunciare a molte delle attività che in precedenza potevano svolgere al fine di prolungare la vita dei loro nuovi giunti meccanici.
“Per i pazienti con problemi articolari causati da condizioni degenerative, gli impianti di metallo e plastica sono ancora una buona opzione, soprattutto quando il danno è spesso troppo ampio per utilizzare innesti di tessuto”, sostengono i ricercatori. “Tuttavia, per i pazienti con traumi accidentali alle giunzioni articolari in cui il giunto era in buona salute prima dell’infortunio, i livelli di attività precedenti possono non subire riduzioni se si è in grado di sostituire la zona danneggiata con tessuti viventi”.
Tra l’altro, il corpo accetta innesti ossei e cartilagini senza la necessità di farmaci anti-rigetto perché il tessuto del donatore diventa parte del giunto stesso.
Inoltre, a causa delle valutazioni di sicurezza e della logistica, solo il 20% dei tessuti conservati può essere innestato perché non rimangono abbastanza cellule viventi dopo 28 giorni. Quindi, lo stesso metodo di conservazione ha finora limitato la quantità e la qualità di tessuti disponibili per i chirurghi.
Al contrario, con il sistema di conservazione MOPS si è arrivati a un tasso del 100% di innesti di tessuto utilizzabili fino a 60 giorni dopo l’approvvigionamento.
Gli autori concludono che la redditività dei condrociti donati è fondamentale per il successo del trapianto osteocondrale. Il metodo MOPS consente la conservazione della vitalità dei condrociti per 60 giorni a livelli qualitativi ottimali: i risultati positivi sono stati palesemente riscontrati nel modello canino con grandi difetti articolari del condilo-femorale.
“Con questa nuova tecnica di conservazione possiamo offrire a un maggior numero di pazienti una riparazione che permette alle loro articolazioni di rispondere alle attività quotidiane, come quando le articolazioni erano integre: il tessuto impiantato può rinnovarsi come in un giunto normale, con conseguente diminuzione dei limiti fisici per il paziente”.
Questi risultati forniscono un promettente sviluppo dell’innesto eterologo osteocondrale che può aumentare il quantitativo di tessuti disponibili per l’uso e la qualità degli innesti impiantabili.
Bibliografia
Cook JL, Stoker AM, Stannard JP, al. A novel system improves preservation of osteochondral allografts. Clin Orthop Relat Res 2014; 472: 3404-14.



CAMMINARE DI NUOVO GRAZIE ALLA NEUROPROTESICA
Quando si tratta di fare impianti cibernetici che mirano a fondere l’elettronica con la biologia, le sostanze plastiche funzionano meglio.
Dai ricercatori dell’Ecole Polytechnique Federale di Losanna una scoperta di grande rilievo per il trattamento di traumi alla spina dorsale che ha permesso ai ratti paralizzati di ripristinare l’attività motoria. Stiamo parlando di neuroprotesica , ossia l’uomo e la macchina in perfetta armonia.
I ricercatori svizzeri sono riusciti a concepire un impianto plastico denominato “ultrasoft” che, per mezzo di schiere di elettrodi flessibili posizionate lungo le spine dorsali danneggiate, sarebbe stato in grado di far recuperare il movimento motorio alle cavie paralizzate.
Immaginate la spina dorsale come un’autostrada ad alta densità di traffico luogo la quale gli impulsi elettrici partiti dal cervello viaggiano verso le periferie del corpo: la corsa di questi impulsi può essere arrestata da traumi o malattie che provocano l’interruzione della naturale via di collegamento e come diretta conseguenza l’impedimento dei movimenti.
Lo stesso team di ricerca aveva già condotto, sempre su cavie da laboratorio paralizzate, un trial a base di stimolazioni elettriche direttamente sulla spina dorsale: le cavie sottoposte a tali stimolazioni riuscivano a correre lungo una superficie, a salire e scendere le scale e, addirittura, a superare alcuni ostacoli. Tuttavia, tale metodo prevedeva il posizionamento di elettrodi lungo la spina dorsale collegati a un elettrostimolatore esterno, dunque non poteva rappresentare una soluzione a lungo termine.
I ricercatori hanno però compreso che gli impianti permanenti potevano rappresentare l’unica possibile risposta all’impedimento dei movimenti. Ma occorreva realizzare impianti con materiale perfettamente flessibile onde evitare infiammazioni da sfregamento.
Così è stato progettato un impianto elastico in grado di muoversi assieme al corpo e di provvedere a fornire, contemporaneamente, impulsi chimici ed elettrici. Il materiale è costituito da silicone elastico, i collegamenti elettrici sono in oro, con piccoli tagli sulla superficie per renderlo perfettamente flessibile. Tale materiale rappresenterebbe una soluzione a più lungo termine rispetto agli elettrodi.
Applicato su cavie da laboratorio colpite da paralisi, ha permesso loro di riprendere a muoversi.
Se agli inizi del secolo scorso il sistema nervoso centrale (SNC) era visto come qualcosa di immutabile, oggi possiamo invece affermare che esso presenta un’organizzazione tutt’altro che fissa. I rapporti tra struttura e funzione dipendono da interazioni complesse tra il patrimonio genetico di ogni individuo e le peculiarità della sua esperienza.
In questo campo gli studi di medicina rigenerativa sono ancora distanti dal trovare una soluzione che permetta una piena ripresa funzionale della conduttività nervosa. Il trapianto di cellule staminali potrà essere uno strumento fondamentale negli studi di medicina rigenerativa dei traumi spinali date le loro caratteristiche differenziative e la loro elevata plasticità. Ma le discussioni e le normative intorno al loro utilizzo ne rallentano l’eventuale applicazione clinica.
Ciò che è stato osservato in questa ricerca è qualcosa di palpabile, visibile, seppur in cavie di laboratorio.
Ovviamente, dovranno passare ancora molti anni prima di poter sperimentare lo stesso metodo sugli esseri umani: basti pensare a quante volte al giorno ci pieghiamo o ci alziamo, espandendo o ritraendo la spina dorsale, cosa che richiede materiale altamente elastico, resistente e studiato appositamente per sopportare tali sollecitazioni.
Tuttavia questa scoperta, presentata sulla rivista Science, potrebbe rappresentare la risposta definitiva alla riparazione di traumi che portano a paralisi completa o parziale di parti del corpo per la quale, al momento, non esistono ancora risposte risolutive.
La comunità scientifica è infatti d’accordo nel definire il risultato di tale sperimentazione una autentica rivoluzione: sebbene dal test su animali a quello su esseri umani la strada sia ancora lunga, si spera che possa rappresentare comunque un grande passo avanti nell’approccio ai danni neuronali come il morbo di Parkinson e la sindrome di Tourette.
Bibliografia
Service RF. A soft approach kick-starts cybernetic implants. Science Bioelectronics 2015; 347: 114.



NUOVA MACCHINA DI PERFUSIONE PROMETTE ALTI STANDARD DI CONSERVAZIONE
Un nuovo sistema di conservazione, che pompa liquido sub-normotermico (21 °C) arricchito di ossigeno nei fegati dei donatori, non solo mantiene gli organi in ottimo stato oltre le nove ore prima del trapianto, ma porta anche a una migliore funzione epatica e aumenta la sopravvivenza dei riceventi.
È quanto emerge da una serie di studi su modello animale effettuati dai ricercatori dell’Università di Pittsburgh School of Medicine e del McGowan Institute for Rigererative Medicine.
Il sistema potrebbe essere testato nei pazienti in attesa di trapianto presso il centro di Pittsburgh (UPMC) entro la fine dell’anno.
I risultati, pubblicati online sul Journal of Transplantation, suggeriscono che è possibile utilizzare una “macchina di perfusione” con una soluzione ossigenata “cell-free” appena creata, per aumentare il numero di fegati di alta qualità disponibili per il trapianto, riducendo così i tempi di attesa e la mortalità dei pazienti che rimane inaccettabile negli USA (Hayashi PH, et al. Regional differences in deceased donor liver transplantation and their implications for organ utilization and allocation. Clin Transplant 2011).
“Attualmente, dal 20 al 40% dei fegati trapiantati negli Stati Uniti va incontro a una primary non function (PNF) e a rigetto, anche a causa della privazione di ossigeno durante il trasporto in contenitori convenzionali, che può rendere persistenti o peggiorare i danni ai tessuti”. Spiega il ricercatore senior dello studio Paulo Fontes, chirurgo allo Starzl Transplantation Institute e vice direttore dell’Istituto McGowan: “Se il danno è troppo esteso, l’organo trapiantato può non essere sicuro per il paziente”.
“La pratica standard usa un metodo chiamato preservazione statica a freddo (4 °C), che utilizza il raffreddamento del tessuto per rallentarne il metabolismo allo scopo di ridurre la domanda di ossigeno e proteggere dalla morte le cellule”, spiega Fontes.
“Nel nostro nuovo sistema a pressioni pulsatili continue pompiamo un liquido speciale progettato per fornire ossigeno al fegato, creando un ambiente naturale che supporta la normale funzione dell’organo”.
In questo modo l’integrità delle cellule e l’attività metabolica vitale vengono sostenute ottimamente fino all’eventuale trapianto.
Il team di ricerca ha ottimizzato il funzionamento della macchina di perfusione sviluppata dalla Organ Assist, una società dei Paesi Bassi, aggiungendo un vettore di ossigeno a base di emoglobina (HBOC) di seconda generazione, sperimentato nella versione iniziale in chirurgia ortopedica, per fornire alte concentrazioni di quest’ultimo ai tessuti (Jahr JS, et al. HBOC-201 as an alternative to blood transfusion: efficacy and safety evaluation in a multicenter phase III trial in elective orthopedic surgery. J Trauma 2008).
Il fegato viene praticamente immerso nel fluido refrigerato, mentre parte di esso viene pompato anche attraverso condotti inseriti nei grandi vasi sanguigni dell’organo allo scopo di ossigenare ancor più efficacemente il tessuto epatico (McNeil JD, et al. A bovine hemoglobin-based oxygen carrier as a pump prime for cardiopulmonary bypass; reduced system lactic acidosis and improved cerebral oxygen metabolism during low flow in a porcine model. J Thorac Cardiovasc Surg 2011).
Il gruppo di ricerca ha finora applicato la procedura in 6 maiali sottoposti a trapianto di fegato con organi conservati per circa 9 ore (più o meno il tempo medio che generalmente intercorre tra prelievo e trapianto nei pazienti), confrontando i risultati con quelli ottenuti in altri 6 suini trapiantati con organi conservati nei contenitori standard.
Gli autori hanno quindi osservato che il 100% dei suini trapiantati con fegati conservati con la nuova metodica è sopravvissuto, rispetto al 33% di quelli che hanno ricevuto organi convenzionalmente conservati.
I fegati conservati con la macchina di perfusione hanno funzionato meglio, hanno prodotto più bile e presentavano livelli di ossigeno più alti rispetto ai loro omologhi convenzionali. Le analisi di numerosi biomarker, tra cui mediatori infiammatori, hanno indicato che questi organi erano indubbiamente meglio conservati.
“Questo nuovo sistema ha un grande potenziale per migliorare gli standard vigenti sulla conservazione degli organi, il che dovrebbe tradursi in un maggior numero di pazienti che ottengono una procedura salva-vita con esiti potenzialmente migliori”, conferma il dottor Fontes. “Non solo, abbiamo l’aspettativa di un recupero più veloce perché il fegato ha meno probabilità di ricevere lesioni dovute alla mancanza di ossigeno”.
I dati degli studi sono stati condivisi con i regolatori federali, con l’obiettivo di avviare una sperimentazione clinica nell’uomo entro quest’anno.
Bibliografia
Fontes P, Lopez R, Minervini M, Marsh JW, et al. Liver preservation with machine perfusion and a newly developed cell-free oxygen carrier solution under subnormothermic conditions. Am J Transplant 2015 Jan 22. [Epub ahead of print].



SCREENING DERMATOLOGICO NEI PAZIENTI SOTTOPOSTI A TRAPIANTO, ASSOLUTAMENTE NECESSARIO
Nonostante il significativo aumento del rischio di cancro non melanoma della pelle (NMSC) con conseguente accrescimento della mortalità, soprattutto nei pazienti immunodepressi, lo screening dermatologico di routine nella popolazione dei trapiantati non è attualmente considerato un aspetto essenziale dello standard di cura (Ulrich C, et al. Skin cancer in organ transplant recipients–where do we stand today? Am J Transplant, 2008); (O’Reilly Zwald F, et al. Skin cancer in solid organ transplant recipients: advances in therapy and management: Part II. Management of skin cancer in solid organ transplant recipients. J Am Acad Dermatol, 2011).
Eppure il cancro cutaneo NMSC non è solo il tumore maligno più comune nei pazienti trapiantati, ma è anche il più aggressivo e quello con più alti tassi di recidiva (Dantal J. De novo post-transplantation malignancies: incidence and risk factors. Cancer Treat Res, 2009).
Ciononostante, sono pochi negli Stati Uniti i centri con la dermatologia integrata nel team di trapianto: la Mayo Clinic, la Yale University e l’Emory University Hospital di Atlanta, in Georgia (Otley CC. Organization of a specialty clinic to optimize the care of organ transplant recipients at risk for skin cancer. Dermatol Surg, 2000).
L’obiettivo di questo studio è stato proprio quello di indagare, tra i medici del trapianto, le barriere che ostacolano lo screening dermatologico al fine di dare informazioni e suggerimenti per un’adeguata sorveglianza di routine.
È stato a tal fine inviato un questionario web-based a cui hanno risposto 37 medici. Dai risultati si apprende che l’80% degli intervistati ritiene che lo screening per l’individuazione precoce di neoplasie dermatologiche sia un aspetto importante della cura post-trapianto e che il 92% concorda sul fatto che, nei pazienti sottoposti a trapianto, il cancro della pelle sia una malattia molto aggressiva.
Solo l’8% dei rispondenti invia regolarmente i pazienti allo screening dermatologico pre-trapianto e solo il 19% dispone di uno specifico screening come parte del protocollo post-trapianto: eppure quasi la metà dei partecipanti (49%) ha riferito di aver avuto almeno un paziente trapiantato che poi ha sviluppato cancro della pelle.
Inoltre, l’84% degli intervistati era a conoscenza delle raccomandazioni sullo screening dei tumori della pelle nei pazienti sottoposti a trapianto, emanate dall’American Academy of Dermatology (AAD) e del fatto che i trapiantati di organo solido hanno un rischio di cancro della pelle 65 volte superiore rispetto alla popolazione generale (O’Reilly Zwald F, et al. Skin cancer in solid organ transplant recipients: advances in therapy and management: Part I. Epidemiology of skin cancer in solid organ transplant recipients. J Am Acad Dermatol, 2011), così come i trapiantati di midollo osseo sono ad aumentato rischio di carcinoma basocellulare (BCC) e di carcinoma squamoso (SCC), soprattutto se si sviluppa una graft-versus-host disease cronica o vengono sottoposti a irradiazione pre-trapianto.
Nondimeno, il Cincinnati Transplant Tumor Registry riporta che il 5,4% dei pazienti muore come diretta conseguenza di cancro della pelle non trattato e uno studio australiano ha mostrato che il 27% dei decessi nei trapiantati entro i quattro anni dal trapianto è direttamente correlato al cancro della pelle non trattato.
Quindi viene da chiedersi per quale motivo solo pochissimi centri in America abbiano la dermatologia integrata al team di trapianto.
Lo studio evidenzia tre principali barriere a una corretta gestione del problema: la percezione di una certa difficoltà nel reperire, coinvolgere e integrare un dermatologo, la percezione che lo screening dermatologico non sia un aspetto importante nella cura post-trapianto e, in terzo luogo, la convinzione che non vi siano sufficienti prove a sostegno della necessità di uno screening nei pazienti sottoposti a trapianto.
Gli autori ritengono invece che ci siano tutti gli elementi epidemiologici e scientifici per affermare che lo screening dermatologico per la prevenzione del cancro della pelle debba far parte di un percorso di routine e diffondersi fra tutti i centri di trapianto.
Appare evidente che alla pelle, il più grande organo del corpo, non viene data l’importanza appropriata da un numero significativo di team di trapianto, probabilmente perché sono impegnati nella complessa gestione del trapianto stesso.
Ma la base di queste barriere è la scarsità di consapevolezza proveniente dalla letteratura corrente e dalle linee guida in materia di esame cutaneo.
Pertanto, gli autori richiamano tutti a fare uno sforzo concertato per integrare un dermatologo nell’équipe di trapianto, cosicché ogni candidato o paziente trapiantato possa ricevere le attenzioni appropriate.
Bibliografia
Lloyd A, Klintmalm G, Qin H, Menter A. Skin cancer evaluation in transplant patients: a physician opinion survey with recommendations. Clin Transplant 2015; 29: 110-7.