DALLA LETTERATURA

INNOVATIVO TRAPIANTO DI STAMINALI MODIFICATE
Il texano Chuck Dandridge è diventato il primo adulto negli Stati Uniti a ricevere il trapianto di cellule staminali geneticamente modificate dalle cellule del sangue di un membro della famiglia.
Lo hanno annunciato i ricercatori dell’Harold C. Simmons Comprehensive Cancer Center della UT Southwestern Medical Center, dove è stata eseguita la procedura.
Le nuove cellule del sangue geneticamente modificate sono state prelevate da suo figlio, Jon, e grazie alla procedura, il suo sistema immunitario si sta riprendendo.
“Dare al mio papà lo stesso dono della vita che mi ha dato lui quando mi ha portato in questo mondo è stata la sensazione più incredibile che un figlio possa avere”, ha commentato Jon Dandridge.
“Mi sono sempre chiesto come avrei potuto dare qualcosa ai miei genitori che mi hanno dato tanto”.
In tre infusioni di due ore al Clements Jr. University Hospital nello scorso luglio, il signor Dandridge ha ricevuto il trapianto della vita da suo figlio trentunenne.
Il suo percorso di trasformazione è iniziato nel 2013, quando Dandridge è stato visitato dal suo medico per un controllo di routine che ha rivelato livelli di emocromo bassi. Sottoposto subito ad altri accertamenti specialistici, è stata diagnosticata la sindrome mielodisplastica. Già nel 2014, la sua malattia era progredita sfociando nella leucemia mieloide acuta (AML) che, secondo il National Cancer Institute, colpisce più di 20.000 americani ogni anno.
È stato quindi indirizzato al Southwestern Simmons Cancer Center per lo studio di eventuali mutazioni geniche alla base della malattia.
“Volevamo sapere se aveva specifiche mutazioni nelle sue cellule tumorali e abbiamo trovato una mutazione chiamata IDH 2, che induce il corpo a produrre una proteina anomala che a sua volta promuove una crescita cellulare eccessiva”, spiegano i medici che lo hanno seguito.
“Se si riesce a indirizzare tale mutazione e a fermare la proteina anomala prodotta le cellule iniziano a comportarsi normalmente”, specifica Madhuri Vusirikala, professore di Medicina interna e autore di molti studi clinici al Southwestern Simmons Cancer Center relativi al trapianto di midollo osseo.
Si è quindi deciso di arruolare il paziente in uno studio clinico particolare il cui protocollo prevedeva l’assunzione della terapia AG-221. Quattro pillole ogni mattina per i successivi otto mesi.
“Abbiamo assistito a un netto miglioramento: il paziente non è andato in remissione completa ma ha avuto una risposta eccellente”, ha precisto Vusirikala. “Questo successo ha fatto sì che potesse essere valutato per beneficiare di un trapianto di cellule staminali potenzialmente curativo”.
Ma trovare un donatore si è poi rivelato difficile.
In questi casi la migliore possibilità di trovare una piena corrispondenza è rappresentata da un fratello, ma Chuck non ne aveva. Inoltre, le minoranze etniche sono sotto rappresentate nel National Marrow Donor Registry, in quanto il 70% dei donatori presenti è caucasico, mentre Dandridge è afro-americano.
“Sapevamo che la figlia e il figlio avevano una corrispondenza al 50%, ma l’utilizzo di un donatore dello stesso sesso è preferibile perché riduce il rischio di complicazioni, per cui suo figlio Jon era la scelta migliore”, spiegano i ricercatori.
“Tuttavia con un match parziale il rischio di una graft-versus-host-disease è molto alto, quindi avevamo bisogno di trovare una soluzione per scongiurare tale rischio”.
Ancora una volta, il signor Dandridge si è prestato per una sperimentazione clinica all’avanguardia, nota come BP-001, che permette di esaminare le cellule staminali destinate al trapianto, riduce il rischio di rigetto e utilizza globuli bianchi ingegnerizzati con una potenziale azione mirata in caso di sviluppo della GVHD dopo il trapianto con l’aiuto di uno specifico farmaco.
Praticamente le cellule immunitarie (cellule T) del donatore vengono separate dal resto delle cellule staminali e ingegnerizzate per includere un gene suicida per mezzo di un retrovirus. Quindi restituite al paziente con il trapianto.
Lo sviluppo clinico di questo approccio è ancora in fase di sperimentazione presso una società farmaceutica di Houston che si occupa di immunoterapie cellulari i cui prodotti si differenziano per l’inserimento di potenti interruttori molecolari progettati per eliminare, ridurre o attivare determinate azioni delle cellule staminali di donatori imparentati parzialmente compatibili.
“Il suo sistema immunitario sta rispondendo molto bene” dicono i ricercatori, “e questa indubbiamente è già una bella notizia”.
Bibliografia
UT Southwestern Medical Center Press Release, June 13, 2016.



IL NEW ENGLAND JOURNAL OF MEDICINE LANCIA L’ALLARME SUL TURISMO DELLE STAMINALI
In una lettera all’editore un gruppo di medici del Brigham and Women’s Hospital di Boston rivela i tragici retroscena di un paziente sottoposto a trapianto di staminali in diverse cliniche private del mondo, nella speranza di porre rimedio ai danni causati da un ictus. Il risultato è stato quello di ritrovarsi paralizzato per uno pseudotumore che si è sviluppato nel midollo spinale.
È, dunque, allarme sul turismo delle staminali, un fenomeno commerciale ignobile e fuori controllo.
Le cliniche private per i trattamenti con cellule staminali stanno fiorendo in tutto il mondo, insieme alle promesse di soluzioni miracolose e di guarigioni improbabili. Basta pagare e inverosimili soluzioni per l’Alzheimer, il Parkinson, le lesioni del midollo spinale e quant’altro si trovano.
Il problema è che queste ipotetiche soluzioni sono appunto improbabili ma le conseguenze, purtroppo, concrete.
È quello che ha sperimentato sulla propria pelle Jim Gass, il protagonista di questo caso riportato dal New England Journal of Medicine, sottoposto in Cina, Argentina e Messico a infusioni intratecali di staminali (mesenchimali, embrionali, fetali) per rimediare alle sequele lasciate da un ictus.
La comparsa improvvisa di un dolore lombare sempre più forte, seguito poco dopo da paraplegia e incontinenza urinaria, ha richiesto approfondimenti diagnostici che hanno rivelato una massa cellulare rapidamente proliferante a differenziazione gliale, con un DNA diverso da quelle del paziente e, sebbene la lesione fosse tecnicamente una neoformazione, aveva caratteristiche simili a quelle di un glioma maligno pur non presentando altre caratteristiche tipiche del cancro.
La cosa certa è che, sulla base di studi istopatologici e molecolari, questa lesione glioproliferativa risultava proveniente dalle cellule staminali esogene introdotte per via intratecale.
I successivi trattamenti radioterapici a cui il paziente è stato costretto hanno ridotto il dolore alla schiena, migliorato la mobilità della gamba destra e diminuito la massa della lesione.
Ma questo per ora è il conto che lo sfortunato paziente ha dovuto pagare alle terapie che avrebbero dovuto riparare i segni lasciati dall’ictus e che è ben più salato dei 300 mila dollari spesi in cure e viaggi.
“Le cellule embrionali e altre tipologie di staminali”, scrivono Aaron Berkowitz et al. del Brigham and Women’s Hospital di Boston, “hanno un potenziale oncogeno conosciuto tanto da essere indicate come fonte comune di cancro quando sono state iniettate nei topi trasformandosi in gliomi maligni; inoltre la rapida divisione cellulare osservata in coltura può acquisire mutazioni che possono sempre predisporre a una trasformazione maligna delle stesse”.
“Nonostante queste evidenze scientifiche, le cliniche private di staminali continuano a operare indisturbate, ignare o indifferenti al rischio di queste gravissime complicanze legate all’introduzione di staminali ad elevata attività proliferativa nei pazienti”.
È dunque un fenomeno grave che va assolutamente fronteggiato perché un’industria commerciale delle staminali completamente priva di controlli non solo è un potenziale pericolo per il singolo paziente, ma mina anche la fiducia negli studi seri sulle staminali, vagliate all’interno dei trial clinici in corso.
“Se non si può proibire il turismo delle staminali”, affermano gli autori nella loro lettera, “né l’attività di queste cliniche, almeno bisognerebbe dare più informazioni ai pazienti circa i pericoli di queste pratiche e far capire loro che per questi trattamenti sperimentali è imperativo affidarsi solo a contesti sicuri e altamente controllati”.
Bibliografia
Berkowitz AL, Miller MB, Mir SA, Chi JH, et al. Glioproliferative lesion of the spinal cord as a complication of “stem-cell tourism”. N Engl J Med 2016 [Epub ahead of print].



TEST DELLA TROPONINA, TROPPO POCO PER VALUTARE UN CUORE
Un semplice esame del sangue utilizzato per determinare se un cuore sia idoneo alla donazione può portare a giudizi di inidoneità e a rifiuti non giustificati e, per questo, il suo utilizzo andrebbe assolutamente rivisto.
È la conclusione di un nuovo studio pubblicato sulla rivista Circulation: Heart Failure ad opera dei ricercatori del Department of Cardiovascular and Thoracic Surgery, presso il Montefiore Medical Center, Albert Einstein College of Medicine di New york.
L’esame in questione è il test della troponina generalmente utilizzato per la valutazione dell’insufficienza cardiaca.
Secondo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC), negli Stati Uniti, circa 5,7 milioni di americani presentano un quadro d’insufficienza cardiaca.
In alcuni casi tale condizione può essere trattata con semplici cambiamenti dello stile di vita, come, ad esempio, una dieta sana, esercizio fisico, sospensione del fumo e farmaci specifici.
Tuttavia, nei casi di insufficienza cardiaca allo stadio terminale, il trapianto di cuore è l’unica opzione risolutiva.
Stando ai dati della United Network for Organ Sharing (UNOS), però, che, al mese di giugno 2016 certificava 4.147 pazienti statunitensi in attesa di trapianto, più della metà di questi non riceverà un trapianto in tempo utile.
“Questa cronica carenza di organi fa sì che l’attenzione di tutti sia rivolta ad aumentare il numero di donatori disponibili. Ma non è l’unico dei problemi, c’è anche il fatto che, mediamente, 1 cuore su 3 di quelli proposti, viene giudicato non idoneo al trapianto”, spiegano i ricercatori.
Questo succede anche perché molti centri di trapianto si basano, appunto, sul test della troponina I (una proteina che viene fisiologicamente rilasciata dall’organismo in risposta a un danno cardiaco), che viene eseguito su un campione ematico del donatore proprio per valutare l’idoneità del cuore.
Quando i livelli di troponina sono alti il cuore spesso non viene accettato per la preoccupazione che l’organo possa essere troppo danneggiato per riprendere la sua funzione dopo il trapianto e questo indipendentemente dal fatto che il cuore possa apparire in buona salute con altri parametri clinici e accertamenti strumentali.
Ma secondo quest’ultima ricerca i livelli di troponina non pregiudicano affatto la sopravvivenza del ricevente e basarsi solo su tale test può portare a valutazioni di inidoneità e a rifiuti ingiustificati.
Per lo studio i ricercatori hanno valutato i risultati di 10.943 pazienti sottoposti a trapianto di cuore presenti nel registro UNOS, al fine di determinare eventuali differenze nei risultati dei trapianti. Tutti i cuori dei donatori avevano una normale funzione contrattile, precisano gli autori in una nota.
A 30 giorni, 1 anno, 3 anni e 5 anni dal trapianto, lo studio non ha evidenziato differenze significative nella sopravvivenza dei riceventi. In particolare, non è emersa alcuna associazione tra alti livelli di troponina I nei donatori e rischio di morte del ricevente entro un anno dal trapianto.
Sulla base dei risultati, Patel et al. ritengono che i centri di trapianto non dovrebbero prendere decisioni sull’idoneità al trapianto basate esclusivamente sui livelli di troponina I nei donatori, soprattutto se l’organo è comunque adatto al ricevente.
Il loro centro ha già cambiato il modo in cui i donatori vengono valutati, ossia senza dare alcun significato clinico a un test di troponina positivo, soprattutto in assenza di ulteriori riscontri strumentali. Sono talmente convinti della robustezza dei loro risultati da prevedere cambiamenti anche a livello nazionale.
Bibliografia
Madan S, Saeed O, Shin J, Patel SR, et al. Donor troponin and survival after cardiac transplantation: an analysis of the United Network of Organ Sharing Registry. Circ Heart Fail 2016; 9. pii: e002909.



L’ALTO RISCHIO DEI RITRAPIANTI NEI PAZIENTI HIV-POSITIVI
Per differenti ragioni per molti anni non si è presa in considerazione la possibilità del trapianto nei soggetti HIV-positivi.
Tra queste: la limitata aspettativa di vita, la non conoscenza dell’impatto della terapia immunosoppressiva su un quadro d’immunodeficienza preesistente e la preoccupazione di gravi manifestazioni infettive post-trapianto.
In pratica, il trapianto nei soggetti HIV-positivi era considerato un pericoloso e inutile “spreco” di organi tanto che negli anni 2000 l’infezione da HIV era ritenuta una controindicazione assoluta al trapianto.
Poi l’avvento di nuovi e potenti farmaci ha cambiato gradualmente il quadro della malattia e con essa anche la precedente preclusione al trapianto.
Tanto che nel novembre 2013, negli USA, un’apposita legge (HOPE Act) ha cancellato il divieto di donazione di organi da una persona sieropositiva a un’altra. Resta ovviamente l’impedimento a trapiantare organi di persone sieropositive su pazienti senza HIV.
Da questo momento, in più parti del mondo le politiche sanitarie in materia di trapianti di organi solidi nelle persone sieropositive sono state riviste e per i pazienti con insufficienza d’organo terminale si sono aperte nuove prospettive di cura grazie a precisi criteri di selezione e alle raccomandazioni per la gestione del post-trapianto.
Tuttavia, se per i primi trapianti i risultati sono sovrapponibili a quelli raggiunti nella popolazione HIV-negativa (89% vs 90% a 3 anni), nei ritrapianti non è così.
Lo sostiene un nuovo studio dello University of Alabama at Birmingham Comprehensive Transplant Institute, pubblicato sull’American Journal of Transplantation.
Secondo gli autori, i riceventi di rene HIV-positivi che perdono il loro primo trapianto avrebbero un aumentato rischio di decesso in un secondo trapianto.
Per arrivare a questa conclusione i ricercatori hanno analizzato il rischio di morte e la perdita del trapianto in 4.149 adulti ritrapiantati di rene, 4.127 dei quali con concomitante infezione da epatite C.
Nel secondo trapianto i tassi di sopravvivenza sono risultati infatti inferiori (84%) e ancora più bassi sono stati gli outcome dei riceventi HIV e HCV-positivi (73%).
In quest’ultimo gruppo i pazienti erano più comunemente di etnia afro-americana (63,6% vs 26,7%, p <0,001) e avevano avuto un tempo medio in dialisi più a lungo (4,8 anni contro 2,1 anni).
Secondo gli autori, il vero problema è che attualmente i pazienti HIV-positivi devono avere una carica virale non rilevabile per poter ricevere un trapianto di rene, ma lo stesso requisito non si applica ai pazienti affetti da epatite C.
L’auspicio è quello che la comunità di trapianto si concentri maggiormente sull’eradicazione dell’epatite C, sia nei pazienti già trapiantati, sia in quelli in attesa di trapianto, al fine di garantire risultati migliori anche per questi pazienti.
In ogni caso gli studi futuri dovranno essere orientati a determinare il reale beneficio di sopravvivenza ottenibile con il ritrapianto in questa popolazione di pazienti più vulnerabili.
Bibliografia
Shelton BA, Mehta S, Sawinski D, Locke JE, et al. Increased mortality and graft loss with kidney retransplantation among HIV-infected recipients. Am J Transplant 2016. [Epub ahead of print].



TECNICA “SENTINELLA” NEL TRAPIANTO D’INTESTINO
Il prelievo e il successivo trapianto di intestino sono atti chirurgici particolarmente complessi. Una delle ragioni è rappresentata dalle dimensioni dell’organo che devono essere particolarmente ridotte per consentire la perfetta chiusura della parete addominale.
Per ovviare a questa frequente difficoltà si è ricorso al contestuale trapianto di parete addominale che consente di ampliare lo spazio utile alla chiusura dell’addome.
Il trapianto di parete addominale (AWTX), descritto per la prima volta nel 2003, ha dunque rivoluzionato la difficile chiusura addominale dopo il trapianto intestinale (Levi DM, et al. Transplantation of the abdominal wall. Lancet 2003).
È stata una vera rivoluzione perché, nei candidati al trapianto intestinale, le cicatrici estese intra-addominali, i gravi danni procurati da precedenti stomie, da interventi chirurgici pregressi e da fistole o tumori enterocutanei desmoidi, spesso sfociano in una perdita dell’elasticità addominale che rende particolarmente difficoltosa la chiusura della fascia muscolare primaria in questi soggetti, con percentuali di deiscenza della ferita del 20-33% (Cipriani R, et al. Abdominal wall transplantation with microsurgical technique. Am J Transplant 2007).
Pertanto, l’idea iniziale del trapianto di parete addominale contestuale al trapianto intestinale era quella di ottenere una chiusura migliore dell’addome e quindi prevenire gli episodi di morbilità e mortalità post-operatoria.
La tecnica si è rivelata talmente valida che i tassi di infezione post-operatoria e di morbilità legate ai tentativi chirurgici per ottenere la chiusura addominale sono stati drasticamente ridotti.
Da allora, la fattibilità chirurgica del trapianto di parete addominale è stata dimostrata anche da altri centri, seppur con diverse tecniche (Zanfi C, et al. Incidence and management of abdominal closure-related complications in adult intestinal transplantation. Transplantation 2008).
Stando alla letteratura corrente, risultano infatti eseguiti 18 trapianti di intestino o multiviscerali combinati con il trapianto di parete addominale (15 a Miami e 3 a Bologna).
Forse inconsapevolmente la tecnica si è rivelata anche uno strumento per la diagnosi differenziale tra rigetto e infezione, aprendo un nuovo percorso verso un’immunosoppressione più equilibrata.
Tuttavia, entrambi i gruppi sopracitati, non sempre hanno utilizzato il trapianto di parete addominale per monitorare il rigetto, in quanto nelle loro esperienze hanno osservato che il rigetto intestinale si è manifestato senza alcun segno di rigetto della pelle.
Questo può essere dovuto al fatto che gli innesti di parete addominale non sono stati sempre prelevati dallo stesso donatore che ha fornito l’intestino.
In questi casi, infatti, l’innesto di parete addominale può andare incontro a rigetto indipendentemente dal graft intestinale e quindi non può essere preso come marcatore sentinella del rigetto intestinale.
In questo studio gli autori riportano la più grande coorte di trapianti di organo solido, combinato con il trapianto di tessuto composito utilizzando innesti dallo stesso donatore in cui la pelle è diventata estremamente preziosa per studiare il rigetto prima ancora che si manifestasse nel trapianto intestinale.
La casistica riguarda 29 trapianti intestinali (24 di solo intestino e 5 multiviscerali) eseguiti su 28 pazienti presso il centro trapianti di Oxford, che hanno incluso un ampio tratto vascolarizzato di parete addominale a tutto spessore dallo stesso donatore.
La conclusione a cui giungono gli autori è che, nella loro esperienza, il trapianto di parete addominale, oltre a migliorare la tecnica di chiusura dell’addome, si è dimostrato estremamente utile per distinguere tra rigetto e infezione, evitando così un inutile sovradosaggio immunosoppressivo.
Questo ha procurato una serie di vantaggi anche nei ricoveri successivi che sono stati più brevi e con una riduzione delle morbilità.
Gli autori sono dunque convinti che un trapianto di pelle vascolarizzata contestuale al trapianto intestinale o multiviscerale possa servire come accesso remoto, come sentinella, ovvero come strumento non invasivo per regolare l’immunosoppressione senza rischiare di compromettere il trapianto di organi interni migliorando la sopravvivenza a lungo termine di questi pazienti.
Bibliografia
Gerlach UA, Vrakas G, Sawitzki B, Vaidya A, et al. Abdominal wall transplantation: skin as a sentinel marker for rejection. Am J Transplant 2016; 16: 1892-900.