DALLA LETTERATURA

RISOLTO PARTE DEL MISTERO DELLE INFEZIONI MORTALI POST-TRAPIANTO
Quando Harlan Dorbin è scomparso a un mese dal trapianto di polmone per una rara infezione, il chirurgo si è rivolto alla sorella di Dorbin facendo una promessa: “Le assicuro che andrò fino in fondo a questa faccenda per capire cosa sia successo: il polmone era perfettamente funzionante ma questa infezione ha causato un accumulo anomalo di ammoniaca che l’organismo non è stato in grado di sostenere”. A parlare è Ankit Bharat, chirurgo toracico e responsabile del programma di trapianto di polmone presso la Northwestern University.
La sindrome da iperammoniemia rappresenta una rara ma quasi sempre fatale complicanza che colpisce i pazienti immunodepressi. Spesso refrattaria al trattamento, è caratterizzata da aumenti progressivi di ammoniaca nel siero, portando in definitiva a edema cerebrale con esito infausto.
La complicanza che ha interessato Dorbin avviene in circa il 4% di tutti i pazienti sottoposti a trapianto polmonare, ma nessuno conosce la causa né tantomeno come prevenirla e questo è stato ritenuto semplicemente inaccettabile dal dott. Bharat.
Dopo la morte di Dorbin, Bharat ha trascorso i successivi mesi alla ricerca della causa di questa infezione usando Dorbin come caso di studio.
Attraverso la sua ricerca è stato in grado di identificare uno specifico batterio e dimostrare che l’infezione può essere trattata con successo con gli antibiotici.
Si tratta dell’ureaplasma urealyticum, una specie di batterio appartenente alla famiglia dei Mycoplasmataceae che, come tutti i micoplasmi, non presenta parete cellulare. Ciò permette loro di assumere diverse forme che li rendono difficili da identificare; è inoltre capace di vita autonoma.
L’infezione sistemica sostenuta da questo batterio rappresenta, secondo l’autore, una sfida unica per il metabolismo umano in quanto favorisce la liberazione di ammoniaca con conseguente iperammoniemia.
Per isolare il batterio è stata utilizzata la reazione a catena della polimerasi (PCR), ma la sua identificazione pare sia possibile solo nei pazienti che sviluppano, appunto, iperammoniemia.
Una volta identificata la causa è stato possibile trattare l’infezione con la somministrazione di antimicrobici diretti e specifici che hanno provocato la risoluzione biochimica e clinica del disturbo di iperammoniemia in altri pazienti.
“Sapere che oggi questa condizione è curabile e forse anche prevedibile è una notizia molto importante”, ha affermato Bharat. Saranno sicuramente necessari ulteriori studi per confermare l’associazione iperammoniemia-ureaplasma urealyticum, ma questa ricerca ha già permesso di salvare altri pazienti.
“È stato devastante perdere un paziente come Harlan Dorbin, soprattutto dopo una procedura di trapianto polmonare perfettamente riuscita” ha sottolineato Bharat. “Ma questa ricerca e questi risultati non sarebbero mai stati raggiunti senza di lui e questo permetterà di aiutare tanti altri pazienti sottoposti a trapianto di polmone”.
Bibliografia
Bharat A, Cunningham SA, Scott Budinger GR, al. Disseminated Ureaplasma infection as a cause of fatal hyperammonemia in humans. Sci Transl Med. 22;7 (284):284



LO STRANO CASO DEGLI XENOTRAPIANTI, POCO SOSTEGNO E SCARSI FINANZIAMENTI
Lo xenotrapianto, in particolare quello di organi e cellule da maiali geneticamente ingegnerizzati, potrebbe contribuire a risolvere il problema della scarsa disponibilità di organi (Ekser B, et al. Clinical xenotransplantation: the next medical revolution? Lancet, 2012).
Tuttavia, nonostante diversi risultati incoraggianti (scimmie diabetiche sono rimaste normoglicemiche e insulino-indipendenti per più di un anno dopo il trapianto di isole da maiale), la ricerca ha ricevuto e continua a ricevere uno scarso sostegno da parte di industrie farmaceutiche, agenzie di finanziamento governative e fondazioni di beneficenza.
Eppure i progressi dello xenotrapianto di cellule di maiale sono piuttosto veloci e promettenti, molto più dello xenotrapianto di organi.
Diversi gruppi in tutto il mondo hanno, infatti, riportato risultati importanti, come nel caso del trapianto di cellule neuronali di maiali nelle scimmie nelle quali era stato indotto uno stato di Parkinson con un significativo miglioramento per periodi di mesi e anche oltre l’anno (Leveque X, et al. Intracerebral xenotransplantation: recent findings and perspectives for local immunosuppression. Curr Opin Organ Transplant, 2011).
Per non parlare dello xenotrapianto corneale che ha mostrando risultati incoraggianti con cornee decellularizzate di maiale che, trapiantate nelle scimmie, sono rimaste trasparenti per molto tempo (Choi HJ, et al. Efficacy of pig-to-rhesus lamellar corneal xenotransplantation. Invest Ophthalmol Vis Sci, 2011).
Ma si potrebbero citare anche altri esempi come il trapianto eterotopico di cuore tra maiali e babbuini che recentemente hanno raggiunto sopravvivenze oltre l’anno (Mohiuddin MM, et al. One-year heterotopic cardiac xenograft survival in a pig to baboon model. Am J Transplant, 2014).
Tutti questi successi sono in buona parte legati ai miglioramenti dei trattamenti immunosoppressivi ma anche ai progressi nella comprensione della genetica dei suini. A questo proposito è inequivocabile che l’ingegneria genetica del maiale stia giocando un ruolo di primo piano e sarebbe veramente un peccato rallentarne la comprensione per insufficienza o mancanza di fondi.
Eppure tale rischio è concreto. Da un lato le industrie sembrano riluttanti a sostenere progetti di ricerca che richiedono molto tempo e preferiscono concentrare le risorse su progetti a breve termine che possono arrivare alla sperimentazione clinica entro 2-3 anni. D’altro canto le agenzie di finanziamento governative appaiono distratte dall’attuale fascino tecnologico delle cellule staminali e della medicina rigenerativa e le fondazioni di beneficenza non possono certo da sole sostenere ricerche così impegnative.
Secondo gli autori questo contesto è particolarmente avvilente in quanto ci sono milioni di pazienti in tutto il mondo in attesa di trattamento definitivo per il diabete di tipo 1 o di cecità corneale la cui qualità di vita potrebbe migliorare immensamente se si riuscisse a inserire lo xenotrapianto nella pratica clinica.
Basti pensare che la recente introduzione di nuove tecniche d’ingegneria genetica come la Zinc Finger Nucleasi (ZFNs), ad esempio, sta aumentando la velocità con cui possono essere introdotte più manipolazioni genetiche consentendo la possibilità d’inserire contemporaneamente quattro transgeni (Lutz AJ, et al. Double knockout pigs deficient in N-glycolylneuraminic acid and galactose alpha-1,3-galactose reduce the humoral barrier to xenotransplantation. Xenotransplantation, 2013).
Il tutto senza dimenticare che l’obiettivo finale della ricerca trapiantologica è l’induzione della tolleranza immunologica, che consentirebbe all’innesto di sopravvivere senza la necessità di ricorrere alla terapia immunosoppressiva per tutta la vita. Il paradosso è che, per certi aspetti, questo può essere più facile da realizzare nello xenotrapianto che non nell’allotrapianto, se non altro per la maggiore disponibilità di organi che può permettere una migliore preparazione pre-trapianto del potenziale ricevente.
Infatti, se il complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) tra suini identici dovesse rivelarsi vantaggioso, questi potrebbero essere, naturalmente e immediatamente, ottenuti per clonazione.
Da una parte è necessario sostenere la ricerca, dall’altra il sostegno concesso è sempre minore. Senza adeguati finanziamenti la ricerca e il progresso scientifico si arrestano allontanando l’obiettivo di un maggiore soddisfacimento della domanda di trapianto con promettenti fonti alternative.
Bibliografia
Cooper DK. The case for xenotransplantation. Clin Transplant 2015; 29: 288-93.
http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/ctr.12522/full



DIECI MOSSE PER MIGLIORARE LA DONAZIONE DEGLI ORGANI NELLE TERAPIE INTENSIVE
Gli intensivisti italiani costituiscono la figura chiave per la qualità e il numero delle donazioni di organi. La piena condivisione dell’obiettivo di donazione e la collaborazione con tutto il personale dell’area critica oltre che con i coordinatori ospedalieri del procurement sono il presupposto e la metodologia proposta per una strategia efficace, anche sulla base dei recenti progetti europei ACCORD e ODEQUS.
Per questo motivo la rivista Intensive Care Medicine ci ha invitato ad identificare dieci punti critici ed essenziali per migliorare la donazione di organi nelle terapie intensive.
Il lavoro in pubblicazione indica gli ambiti di miglioramento all’interno del processo di donazione, che viene considerato come parte integrante del fine vita in rianimazione.
Pur tenendo conto delle differenze culturali, organizzative e normative dei diversi Paesi i dieci punti elencati costituiscono obiettivi raggiungibili nel pieno rispetto dei criteri condivisi nel campo della morale e delle buone pratiche mediche.
Il processo di donazione richiede un livello elevato di qualità sia in ambito clinico che relazionale ed organizzativo ma offre un importante campo di ricerca clinica e di innovazione in terapia intensiva. Perseguire il miglioramento dell’identificazione del potenziale donatore, la diagnosi sistematica di morte encefalica, il trattamento mirato del potenziale donatore, la qualità della relazione con la famiglia, la revisione sistematica dei processi e dei risultati costituiscono allo stesso tempo un mezzo efficace per incrementare le donazioni ed assicurare i migliori risultati nel trattamento dei pazienti con grave lesione cerebrale acuta.
Bibliografia
Dominguez-Gil, Murphy, Procaccio. Ten changes that could improve organ donation in the intensive care unite. Intenisive Care Med DOI 10.1007/s00134-015-3833-y.



A LAVORO DOPO IL TRAPIANTO POLMONARE? FA STARE MEGLIO
Tornare alla vita quotidiana riprendendo regolarmente le proprie attività è un obiettivo comune nei pazienti trapiantati, ma non tutti coloro che sono stati sottoposti a trapianto di polmone possono o riescono a tornare al lavoro.
La ripresa delle attività lavorative è peraltro vantaggiosa non solo per il paziente ma anche per la società nel suo complesso. Nonostante questo nelle diverse realtà europee i pazienti che tornano al lavoro dopo il trapianto di polmone si attestano tra il 30 e il 37% (De Baere C, et al. Return to work and social participation: does type of organ transplantation matter? Transplantation, 2010).
In un articolo originale pubblicato sul Deutsches Ärzteblatt International, Hendrik Sühling et al. riportano i risultati del primo studio mai effettuato in Germania sulla percentuale di pazienti trapiantati di polmone che riprendono l’occupazione e le ragioni che impediscono agli altri di farlo.
In uno studio trasversale questi ricercatori hanno valutato le risposte a un questionario socio-economico compilato da più di 530 pazienti sottoposti a trapianto di polmone tra il 2009 e il 2010.
Più di uno su tre sono tornati al lavoro, anche se la maggior parte dei pazienti impiegati lavorava solo mezza giornata.
Il tempo mediano trascorso dal trapianto al ritorno sul lavoro è stato di 11 mesi con un numero medio di 15 ore lavorative a settimana (range 10-20) e con un quarto dei pazienti impiegati che è tornato a lavorare a tempo pieno.
Prima del trapianto 412 pazienti (88%) avevano un impiego di cui il 4,7% di tipo professionale e il 3,6% erano studenti universitari. Complessivamente dei 412 pazienti che avevano un impiego prima del trapianto, 158 (38%) sono tornati al loro impiego anche dopo il trapianto. Mentre dei 58 che non avevano un impiego prima del trapianto, 19 (32%) l’hanno ottenuto dopo, e dei 53 pazienti che avevano trovato un’occupazione nei sei mesi precedenti il trapianto, 40 (68%) hanno mantenuto la loro occupazione anche dopo.
I pazienti che non sono tornati al lavoro hanno riferito di averlo fatto per problemi di salute (40%), incapacità di trovare un posto di lavoro adeguato (22%), assegni di invalidità (16%) o per ragioni familiari (6%).
Tra i fattori che influenzano l’occupazione i più importanti sono l’età e il livello di istruzione; soprattutto quest’ultimo è stato evidenziato in precedenti studi per essere un requisito determinante nell’influenzare il ritorno al lavoro (Kavanagh Tet al. Return to work after heart transplantation: 12-year follow-up. J Heart Lung Transplant, 1999).
Il dato interessante è che i pazienti impiegati hanno riportato una più alta qualità di vita rispetto a quelli disoccupati. Non hanno avuto maggiori complicazioni legate al trapianto (infezioni o rigetti d’organo) rispetto agli altri pazienti trapiantati e si sono assentati dal lavoro per motivi di salute solo leggermente più spesso rispetto alla popolazione generale.
Lo studio dimostra che il tasso di ritorno al lavoro dopo il trapianto polmonare in Germania è simile ai tassi osservati in altri Paesi, in più i risultati di questo studio dimostrano che l’occupazione migliora la qualità della vita e non mette maggiormente in pericolo la salute del paziente.
Sono risultati molto incoraggianti per il trapianto di polmone anche perché alcuni lavori non possono, in linea di principio, essere più eseguiti dal trapiantato di polmone, sia perché le prestazioni fisiche sono ridotte rispetto alla popolazione generale, sia perché alcune professioni sono oggettivamente associate ad un maggiore rischio di infezioni (ad es. agricoltura, giardinaggio, cura degli animali o lavori edili).
Ma fatte salve queste o altre particolari condizioni lavorative, non c’è alcun motivo per cui il paziente trapiantato di polmone non possa tornare ad un’occupazione lavorativa.
Pertanto gli autori raccomandano che i pazienti sottoposti a trapianto polmonare siano incoraggiati a tornare a lavoro e, in assenza di specifiche problematiche sanitarie, i medici per primi dovrebbero fugare i timori di complicazioni cliniche, motivo che i pazienti frequentemente adducono per prendere tempo e rinviare la decisione.
Bibliografia
Suhling H, Knuth C, Haverich A, et al. Employment after lung transplantation- a single-center cross-sectional study. Dtsch Arztebl Int 2015; 112: 213-9.



TRAPIANTO DI FEGATO AD ALTO RISCHIO, TROPPO SOTTILE LA LINEA DI CONFINE
Con l’aumento del numero di pazienti che sviluppano malattie del fegato, e data la contestuale carenza di donatori, i programmi di trapianto di fegato stanno diventando sempre più esigenti nella selezione dei candidati all’intervento. Tuttavia, i criteri per guidare le decisioni nelle situazioni difficili non sono stati pienamente sviluppati. Ad esempio, le decisioni riguardo a pazienti con cancro necessitano di un quadro concettuale che aiuti a raggiungere appropriate valutazioni per la candidatura al trapianto.
Un tumore maligno attivo o trattato in maniera subottimale rappresenta tradizionalmente una controindicazione al trapianto, anche se alcuni tumori primitivi riportano migliori tassi di sopravvivenza a 5 anni con il trapianto. Contestualmente, molti programmi considerano per un secondo trapianto alcuni pazienti con malattia recidivante pur sapendo che non raggiungeranno una sopravvivenza del 50% a 5 anni (Yao FY, et al. Prediction of survival after liver retransplantation for late graft failure based on preoperative prognostic scores. Hepatology, 2004).
Insomma, ad oggi, la comunità di trapianto non ha affrontato esplicitamente la difficile questione di come prendere decisioni anche quando le differenze sono minime o meno drammatiche. Le attuali politiche, infatti, non forniscono una giustificazione etica ben accettata su dove tracciare la linea per distinguere coloro che non dovrebbero poter beneficiare del trapianto rispetto a coloro che ne possono, invece, beneficiare.
In considerazione di tutto questo gli autori riportano un caso che solleva la questione della sottile linea che a volte separa il paziente ammissibile da quello non ammissibile al trapianto.
L’analisi etica che gli autori intraprendono è coerente con le indicazioni dello United Network for Organ Sharing (UNOS) e con la lunga tradizione che tende ad assegnare risorse mediche limitate in base al principio del triage.
Un uomo di 48 anni viene trasferito al centro trapianti dopo aver presentato ascite di nuova insorgenza e ittero a causa di una riattivazione del virus dell’epatite B (HBV) in un quadro di malattia epatica cronica. Un anno prima al paziente era stato diagnosticato un linfoma a cellule del mantello che coinvolgeva i linfonodi addominali e mediastinici con una normale biopsia del midollo osseo. Aveva ricevuto 4 dosi di R-chemioterapia CHOP come parte di un regime di 6 cicli. La sua ultima infusione risaliva a 6 settimane prima del suo arrivo al centro trapianti. Era stata fatta prescrizione di nuova chemioterapia, che il paziente non aveva assunto perché non poteva permettersi il costo del farmaco. Nel corso dei giorni le condizioni cliniche erano peggiorate con coagulopatia, insufficienza epatica e compromissione della funzione renale che richiedeva trattamento dialitico. L’ematologo del paziente aveva stimato che le probabilità di sopravvivenza libera da malattia a 5 anni con il suo linfoma avrebbero potuto essere intorno al 50% anche se non poteva essere sicuro degli effetti dell’immunosoppressione post-trapianto. In ogni caso, il regime chemioterapico avrebbe dovuto essere completato anche dopo l’eventuale trapianto. Il team, pur dividendosi sull’opportunità di candidare il paziente al trapianto visto che c’era potenzialmente meno del 50% di probabilità di sopravvivenza a 5 anni, dava, alla fine, il consenso ritenendo che l’insufficienza sub-cronica epatica fosse dovuta alla riattivazione dell’HBV in un contesto di chemioterapia e che il punteggio MELD di 38 rendesse necessaria l’iscrizione del paziente in regime di urgenza perché non c’era alcuna speranza di sopravvivenza senza un trapianto tempestivo. A tre giorni dal suo inserimento in lista il paziente è stato trapiantato e, dopo un postoperatorio complicato, si è stabilizzato senza prove di peggioramento del linfoma: l’oncologo ha deciso quindi di riprendere la chemioterapia di consolidamento.
Qual è la questione etica?
La maggior parte dei pazienti canditati al trapianto di fegato è tenuta ad avere almeno una stima sopravvivenza post-trapianto del 75% a 5 anni (Keller EJ, et al. Ethical considerations surrounding survival benefit-based liver allocation. Liver Transpl, 2014). Questo perché, a causa della carenza di organi, c’è la necessità di giustificare l’eventuale sottrazione di una risorsa scarsa che potrebbe portare alla morte altri riceventi che invece se ne sarebbero potuti giovare. La questione chiave è quindi: “è da irresponsabili ignorare la differente probabilità di sopravvivenza tra i vari pazienti che necessitano di trapianto o è ingiusto fare distinzioni tra pazienti bisognosi sulla base della loro probabilità di sopravvivenza?”
Il principio formale di giustizia richiede che pazienti simili vadano trattati similarmente. Questo è il concetto che il sistema di assegnazione MELD ha cercato di realizzare. Ma se alcuni programmi di trapianto di fegato hanno impostato i limiti di sopravvivenza attesi come criterio di candidatura e altri non lo hanno fatto, i pazienti in situazioni simili sarebbero trattati in modo diverso.
Sarebbe questa una grave ingiustizia. A questo punto, però, non vi è consenso su quando le differenze nella probabilità di sopravvivenza a lungo termine dovrebbero svolgere un ruolo nelle politiche di assegnazione dell’organo.
Da un lato, la differenza tra una probabilità del 50% di sopravvivenza a 5 anni e una probabilità del 75% appare significativa. Ma se fosse stato da tutti attuato il criterio del 75% di sopravvivenza, gli organi trapiantati avrebbero dovuto produrre un drammatico aumento complessivo di sopravvivenza fornendo più anni di vita al pool di riceventi che rientrano in questo criterio e ciò avrebbe rappresentato la giustificazione di ogni procedura di trapianto dovuta a una durata più lunga rispetto al beneficio del trapianto salvavita.
In realtà non è così semplice. La capacità di stimare la probabilità di sopravvivenza è imperfetta. Le prove a sostegno delle stime spesso non sono robuste e la conoscenza dei fattori che influenzano la sopravvivenza è incompleta. Inoltre, le basse probabilità di sopravvivenza potrebbero essere correlate al corso prevedibile della loro malattia ma anche a circostanze psicosociali di un particolare paziente.
È tuttavia vero che nel trapianto i peggiori outcome si hanno quando gli organi sono trattenuti da pazienti con una bassa probabilità di sopravvivenza a lungo termine, invece, di assegnarli ai pazienti che hanno una buona possibilità di sopravvivenza. È chiaro che è meglio assegnare un organo a un paziente dal quale ci si può aspettare una sopravvivenza di molti anni, piuttosto che destinare l’organo a un paziente che morirà presto a prescindere dal trapianto, anche perché si corre il rischio di perdere anche il paziente che con il trapianto avrebbe avuto un lunga spettanza di vita.
Basterebbe solo questo per affermare che il caso in questione solleva problemi etici difficili da risolvere.
L’articolo affronta, dunque, molti aspetti interessanti e, a prescindere dalla posizione degli autori che può essere condivisibile o meno, discute anche di come la soggettività possa influenzare giudizi e risultati.
Gli autori concludono sostenendo che un 50% di probabilità di sopravvivenza a 5 anni può essere un riferimento adeguato in alcune regioni UNOS in cui i tempi di attesa sono più brevi di quanto non siano in altre regioni. Ma c’è bisogno di un’ulteriore ricerca per raccogliere dati che potrebbero rendere le previsioni di sopravvivenza oggettive, convinti che il problema deve essere ormai affrontato apertamente, in maniera esplicita e inequivocabile.
Bibliografia
Schiano TD, Bourgoise T, Rhodes R. High-risk liver transplant candidates: An ethical proposal on where to draw the line. Liver Transpl 2015; 21: 607-11.