DALLA LETTERATURA

INDAGARE LE CAUSE DELL’INSUFFICIENZA RENALE PER OTTIMIZZARE LE TERAPIE
Prima come giovane medico a Galway, in Irlanda, poi come fellow di nefrologia presso la Scuola di Medicina, Michelle O’Shaughnessy, della Stanford University, ha cominciato a chiedersi se i piani di trattamento simili per tutti i pazienti con insufficienza renale fossero effettivamente la prassi migliore.
“Mi ha sempre colpito il fatto che i miei pazienti fossero spesso giovani e già in dialisi all’età di 23 o 24 anni a causa della glomerulonefrite, una condizione che raggruppa una serie di malattie rare che danneggiano la capacità dei reni di filtrare il sangue”, ha spiegato la dottoressa O’Shaughnessy, riferendosi alla sua esperienza di nefrologa.
“Pensavo che avrebbero dovuto esserci altre strade per loro e che avremmo dovuto essere in grado di curarli meglio e in modo personalizzato”, ha aggiunto.
Attualmente lo standard di cura è quello di seguire un piano di trattamento simile per la maggior parte dei pazienti con insufficienza renale, qualunque sia la causa iniziale della malattia. Le due principali cause d’insufficienza renale negli Stati Uniti sono l’ipertensione e il diabete, seguite dalla glomerulonefrite, anche chiamata malattia glomerulare.
“Ma la causa dell’insufficienza renale e gli effetti collaterali dei trattamenti precedenti sono spesso ignorati. Tutti questi pazienti ricevono lo stesso tipo di approccio terapeutico generico: un trapianto o la dialisi e la causa principale dell’insufficienza renale non viene presa in considerazione”, sottolinea la O’Shaughnessy.
Michelle O’Shaughnessy e i suoi colleghi hanno quindi deciso d’indagare se avrebbe potuto essere vantaggioso adottare piani di trattamento individuali per questi pazienti. Ad esempio, un paziente con alto rischio d’infezione può trarre beneficio da un certo tipo di accesso vascolare per la dialisi mentre un paziente a maggior rischio di neoplasia può aver bisogno di screening specifici e regolari prima e dopo il trapianto di rene.
In uno studio pubblicato online sul Clinical Journal of American Society of Nephrology i ricercatori hanno utilizzato grandi dati per dimostrare che i tassi di mortalità per i pazienti la cui insufficienza renale è stata attribuita a glomerulonefrite variano in modo significativo in base al sottotipo della malattia che avevano.
I ricercatori hanno esaminato i dati riguardanti 84.301 pazienti che, tra il 1996 e il 2011, avevano sviluppato insufficienza renale allo stadio terminale attribuita a uno dei sei principali sottotipi di malattia glomerulare.
“Abbiamo seguito questi pazienti per analizzare la loro sopravvivenza e qualità di vita”, hanno spiegato gli autori “e abbiamo osservato differenze molto significative sia in termini di sopravvivenza sia di qualità di vita”.
I risultati hanno mostrato che il tipo specifico di malattia glomerulare ha determinato quanto tempo un paziente ha vissuto dopo lo sviluppo dell’insufficienza renale. Ad esempio, la mortalità varia dal 4% l’anno per i pazienti con il sottotipo di nefropatia da IgA al 16% l’anno per i pazienti con sottotipo di vasculiti.
Dopo aggiustamento per le diverse variabili, quali età, presenza o meno di diabete, o trapianto di rene, i ricercatori hanno osservato che i pazienti con nefrite lupica presentavano un rischio di morte doppio così come i pazienti con nefropatia IgA.
La glomerulonefrite è la principale causa d’insufficienza renale nei bambini. È più comunemente una malattia autoimmune caratterizzata da infiammazione dei glomeruli. Ma ogni sottotipo di malattia glomerulare presenta caratteristiche diverse. In alcuni sottotipi, il sistema immunitario attacca i reni; in altri, danneggia i vasi sanguigni.
Come risultato, i vari sottotipi dovrebbero essere trattati utilizzando metodi differenti prima che i reni perdano definitivamente la loro funzione. I trattamenti possono includere steroidi o farmaci immunosoppressori più potenti. Gli effetti collaterali derivanti possono variare da gravi infezioni al diabete e ai tumori.
Questi risultati suggeriscono, quindi, che i piani di trattamento dovrebbero variare sulla base alle cause a monte dell’insufficienza renale.
“Se i medici prendessero maggiormente in considerazione le cause che hanno portato all’insufficienza renale e analizzassero quali trattamenti i pazienti hanno ricevuto si potrebbe forse migliorare la loro qualità di vita o aumentarne la durata”.
Il lavoro dimostra, infatti, che la causa dell’insufficienza renale di un paziente è fortemente associata al rischio di morte dopo l’inizio della dialisi o a seguito di un trapianto di rene.
Questo, secondo gli autori, suggerisce che la causa non si deve mai dimenticare, anzi, il trattamento deve essere adattato in funzione dei rischi specifici della malattia e deve essere effettuata una più ampia ricerca per determinare il perché esistano queste disparità di sopravvivenza.
Bibliografia
O’Shaughnessy MM, Montez-Rath ME, Lafayette RA, et al. Patient characteristics and outcomes by GN subtype in ESRD. Clin J Am Soc Nephrol 2015. [Epub ahead of print].



LA CORRISPONDENZA DONATORE-RICEVENTE NELLE “IMPRONTE DIGITALI OLFATTIVE”
Ognuno di noi ha, nel proprio naso, circa 400 sottoinsiemi di recettori olfattivi capaci di distinguere approssimativamente sei milioni di odori diversi.
La distribuzione di questi recettori varia da persona a persona tanto che la percezione olfattiva di ciascuno di noi può presentare caratteristiche uniche.
Una ricerca recentemente pubblicata sui Proceedings of the National Academy of Sciences i ricercatori del Weizmann Institute of Science di Israele hanno relazionato su un metodo di caratterizzazione dell’olfatto che sarebbe in grado di identificare con precisione una persona e che gli stessi ricercatori hanno definito “impronta digitale olfattiva”.
Secondo gli autori le implicazioni di tale scoperta vanno ben oltre la semplice distinzione olfattiva perché si potrebbe pensare di utilizzare le impronte digitali olfattive per l’identificazione delle persone, per la diagnosi precoce di alcune patologie degenerative cerebrali e, soprattutto, come test non invasivo per verificare la corrispondenza donatore-ricevente nei trapianti d’organo.
Il trial si è sviluppato in più fasi. Nella prima fase alcuni volontari sono stati invitati a valutare 28 odori sulla base di 54 diverse parole descrittive, ad esempio: “odore di limone” o “odore maschile”. Per la seconda fase i ricercatori del Dipartimento di Neurobiologia del Weizmann Institute hanno sviluppato una complessa formula matematica multidimensionale al fine di determinare, sulla base della valutazione dei soggetti, quanto simili o differenti fossero risultati due odori tra loro.
Dai 28 odori sottoposti ai partecipanti si sono generati 378 diversi accoppiamenti, ciascun accoppiamento con un diverso livello di somiglianza: ciò significa la determinazione di un’impronta digitale cosiddetta 378-dimensionale.
In poche parole, attraverso questo metodo altamente sensibile, i ricercatori hanno verificato che ogni individuo ha una sua “impronta digitale olfattiva” che rispecchia il genoma individuale.
L’interrogativo emerso al momento della presentazione dello studio riguarda la riproducibilità di tale modello su milioni di persone.
I ricercatori sostengono che, secondo i loro calcoli, per la caratterizzazione delle impronte olfattive di milioni di persone sarebbero sufficienti 28 odori e che con 34 sarebbe possibile identificare con precisione uno dei sette miliardi di individui sul pianeta.
La terza fase della ricerca è orientata alla verifica di quanto suggerito dalle fasi precedenti e cioè che la nostra impronta olfattiva può legare benissimo con l’altro sistema identificativo delle nostre diversità, ovvero il sistema immunitario.
È già stato osservato che l’antigene leucocitario umano (HLA), oggi utilizzato per valutare la corrispondenze donatore-ricevente nei trapianti, correla perfettamente con alcune impronte olfattive, il che potrebbe portare già ora a un risparmio del 32% dei test HLA.
I ricercatori sono convinti che, in prospettiva, le impronte digitali olfattive, oltre ad aiutare a identificare gli individui, potrebbero essere utilizzate per sviluppare metodi per la diagnosi precoce di malattie neurodegenerative come il Parkinson e l’Alzheimer e potrebbero portare a metodi non invasivi di screening iniziale su ampi pool di soggetti nella donazione di midollo osseo o di organi da donatori viventi.
Insomma, una misurazione precisa della percezione olfattiva sembra essere in grado di rivelare informazioni genetiche molto interessanti e significative.
Bibliografia
Secundo L, Snitz K, Weissler K, et al. Individual olfactory perception reveals meaningful nonolfactory genetic information. Proc Natl Acad Sci U S A. 2015 Jun 22. pii: 201424826. [Epub ahead of print].



TRAPIANTO DI FEGATO DA VIVENTE, NON PER TUTTI
Una nuova ricerca pubblicata su Liver Transplantation riferisce che alcune categorie di pazienti: i meno giovani, coloro che non sono sposati, gli immigrati e i cittadini con livelli di reddito più bassi hanno minori probabilità di ricevere un trapianto di fegato da donatore vivente.
Con una quantità limitata di organi da donatore cadavere, i fegati da donatori viventi rappresentano un’importante opzione salvavita per le persone con malattia epatica allo stadio terminale.
Ma, nonostante numerose prove suggeriscano che la sopravvivenza del ricevente a 5 anni dal trapianto è stimata per essere superiore del 20% con un donatore vivente rispetto al donatore cadavere, la possibilità del trapianto di fegato da donatore vivente, in molti paesi occidentali, è confinata a una piccola percentuale di pazienti.
“Poiché la domanda per il trapianto di fegato è superiore all’attuale offerta, c’è un interesse crescente alla donazione diretta da vivente almeno in quei centri con elevata esperienza in questa tecnica”, spiega l’autore principale dello studio Eberhard Renner, dello University Health Network di Toronto in Ontario, Canada. “Il nostro studio ha analizzato le principali caratteristiche dei pazienti che hanno avuto la possibilità di ricevere un trapianto da donatore vivente”.
Il gruppo di ricerca ha effettuato una review dei dati provenienti da 491 pazienti candidati al trapianto di fegato presso il suddetto centro trapianti nel corso di un periodo di 24 mesi.
Sono stati identificati 245 pazienti che hanno avuto almeno un potenziale donatore vivente. Il 70% dei riceventi era maschio con un’età media di 53 anni al momento dell’inserimento in lista d’attesa. L’epatite C, la malattia epatica alcolica e il carcinoma epatocellulare sono risultate le principali cause di ricorso al trapianto di fegato con un’incidenza, rispettivamente, del 34%, 20% e del 35%.
Lo studio ha evidenziato che i riceventi che hanno avuto un potenziale accesso alla donazione da vivente sono stati quelli con la malattia epatica più grave (Child-Pugh C). I riceventi che, al contrario, avevano minori probabilità erano più anziani, single, divorziati, immigrati o con più bassi livelli di reddito.
Commentando i risultati Renner spiega: “Saranno necessarie ulteriori ricerche per comprendere meglio queste evidenze e superare le attuali barriere al pieno sviluppo del trapianto di fegato da vivente ma da quello che abbiamo potuto osservare in questo studio, diversi fattori demografici, sanitari e socio-economici sono indubbiamente associati all’accesso alla donazione da vivente”.
In considerazione di ciò, si ritiene che possibili interventi mirati, come forme di assistenza finanziaria e programmi educativi, possano già ora contribuire ad aumentare la donazione di fegato da vivente.
Bibliografia
Doyle A, Rabie RN, Mokhtari A, et al. Recipient factors associated with having a potential living donor for liver transplantation. Liver Transpl 2015; 21: 897-903.



L’INCLUSIONE DEL FEGATO MIGLIORA I RISULTATI DEL RITRAPIANTO INTESTINALE
Il trapianto d’intestino (ITX) è sempre più un’opzione di trattamento accettata per i pazienti con insufficienza intestinale irreversibile.
Il risultato a breve termine è migliorato negli ultimi dieci anni grazie ai progressi delle tecniche chirurgiche, dei trattamenti immunosoppressori e della terapia antimicrobica (Abu-Elmagd KM, et al. Five hundred intestinal and multivisceral transplantations at a single center: major advances with new challenges. Ann Surg 2009).
Tuttavia, il risultato a lungo termine continua ad essere inferiore a quello di altri trapianti di organi solidi e il rigetto cronico rimane una delle principali cause di perdita tardiva del trapianto (Kim SY, et al. Chronic rejection in a small bowel transplant with successful revision of the allograft by segmental resection: case report. Transplant Proc 2012).
In questi casi il ritrapianto è una valida opzione di trattamento per i pazienti con perdita di quello primario.
Storicamente l’attenzione è stata focalizzata principalmente sulle azioni dell’immunità cellulo-mediata per spiegare tali insoddisfacenti risultati e pubblicazioni recenti indicano chiaramente che la presenza di anticorpi specifici del donatore (DSA) dell’antigene leucocitario umano è associata a un aumento dell’incidenza e della gravità del rigetto intestinale e a prognosi infausta del paziente (Abu-Elmagd KM, Wu G, Costa G, et al. Preformed and de novo donor specific antibodies in visceral transplantation: long-term outcome with special reference to the liver. Am J Transplant 2012).
Contestualmente, la ricerca ha altrettanto ben documentato che la presenza del fegato in un trapianto intestinale è associata a un netto miglioramento della sopravvivenza (Dopazo C, et al. Combined liver-intestine grafts compared with isolated intestinal transplantation in children: a single-center experience. Transplantation. 2012).
Gli autori sono andati dunque a indagare il ruolo immunoprotettivo del fegato nella loro esperienza decennale di trapianto intestinale, per analizzare i risultati a lungo termine del ritrapianto d’intestino con fegato e senza fegato.
Quanto osservato porta i ricercatori a concludere che i risultati a lungo termine del ritrapianto intestinale negli adulti sono piuttosto insoddisfacenti senza la componente fegato, mentre la presenza contemporanea del trapianto di fegato è stata associata a migliori outcome di sopravvivenza del trapianto e del paziente.
Questi risultati confermano la teoria di lunga data che il trapianto di fegato svolga un’azione protettiva sull’intestino riparandolo dai danni anticorpo-mediati e che quindi inserire il fegato come parte di un trapianto intestinale aiuti a prevenire il rigetto dell’organo e migliori i risultati sia precoci sia tardivi del trapianto.
L’esatto meccanismo di questo effetto immunoprotettivo non è ben chiaro ma sono ci sono diverse ipotesi. Si è, ad esempio, pensato che questo effetto fosse secondario alla secrezione di antigeni HLA dal fegato per inibire i DSA e fagocitare questi anticorpi reattivi (McMillan RW, et al. Soluble fraction of class I human histocompatibility leukocyte antigens in the serum of liver transplant recipients. Clin Transplant 1997).
Ma anche la splenectomia nei riceventi può avere un ruolo. Gli autori riferiscono che nella loro esperienza di ritrapianto d’intestino con fegato incluso tutti i riceventi sono stati sottoposti a splenectomia, né hanno mai trapiantato la milza del donatore come parte del graft intestinale a causa del potenziale rischio di GVHD.
La rimozione della milza può certamente contribuire alla riduzione della produzione di DSA de novo e a ridurre il tasso di rigetto acuto. Contestualmente, l’effetto combinato dell’assenza di milza e dell’utilizzo di agenti immunosoppressori potrebbe rendere il sistema immunitario dei riceventi “oversuppressed” e causare un maggiore rischio d’infezione e GVHD.
La sfida per la gestione ottimale di questo gruppo di pazienti è semplicemente quella di trovare un giusto equilibrio tra un’eccessiva immunosoppressione e una sotto-immunosoppressione.
Indubbiamente lo studio presenta dei limiti come la sua natura retrospettiva, la piccola coorte di pazienti e la variabilità delle tecnologie e dei metodi applicati per rilevare gli anticorpi HLA nell’arco di tempo preso in esame.
Quanto osservato dai ricercatori potrà non essere dirimente, ma non può neanche essere casuale. Il fegato svolge un’azione indubbiamente protettiva, col tempo si chiarirà anche il perché.
Bibliografia
Wu G1, Cruz RJ. Live inclusion improves outcomes of intestinal retransplantation in adults. Transplantation 2015; 99: 1265-72.