DALLA LETTERATURA

TRAPIANTI RENALI, TROPPI GLI ORGANI SCARTATI DOPO LA BIOPSIA
I risultati di un nuovo studio condotto dai ricercatori della Columbia University evidenziano elevati tassi di scarto per i reni donati. I ricercatori sostengono, invece, che anche i reni con risultati di biopsia non soddisfacenti possono essere efficaci nel prolungare la vita dei pazienti rispetto ad altri trattamenti conservativi.
Secondo l’Organ Procurement and Transplant Network (OPTN), nell’anno corrente, sono stati donati 6.099 reni negli Stati Uniti. Di questi, 2.223(36,4%) sono stati forniti da donatori viventi, mentre i restanti 3.876 sono stati procurati da donatori deceduti.
Ciò ha rappresentato un soddisfacimento di lista del 6,2% rispetto ai 97.297 pazienti in attesa di trapianto al solo mese di luglio 2017.
Secondo i dati forniti dalla National Kidney Foundation, il tempo medio di attesa per i pazienti in lista è di circa 3,6 anni: ciò significa che circa 13 persone rimangono in dialisi o muoiono ogni giorno senza aver ricevuto il trapianto di rene di cui hanno bisogno.
Questo confronto tra il numero di reni donati e le necessità dei pazienti in lista d’attesa evidenzia la grave e praticamente incolmabile carenza di organi.
Carenza che viene aggravata dalla quota di reni scartati ogni anno che, secondo un recente studio pubblicato sulla rivista Transplantation, mostra che il numero di questi è aumentato di oltre il 14% tra il 1988 e il 2009 e che, attualmente, quasi il 20% dei reni donati viene poi rifiutato (Stewart DE, et al. Diagnosing the Decades-Long Rise in the Deceased Donor Kidney Discard Rate in the United States. Transplantation 2017).
Tuttavia, molti di questi reni considerati non trapiantabili potrebbero essere invece utilizzati.
Lo sostiene Sumit Mohan, del Columbia College di New York, che ha recentemente condotto uno studio sui reni donati e non utilizzati.
I ricercatori hanno lavorato su un campione di 975 reni, di cui 427 provenienti da donatori viventi e 548 provenienti da donatori deceduti, notando che il motivo principale di scarto degli organi donati negli Stati Uniti era dato dai risultati della biopsia.
Il loro studio è andato ad analizzare proprio i risultati di queste biopsie, con l’intento di verificare in che misura il responso delle stesse avrebbe influenzato l’efficacia dei trapianti.
Secondo i dati raccolti, sembra che l’alto tasso di scarto o di rifiuto di questi reni non sia né giustificato né tantomeno necessario.
In particolare, nel caso dei reni donati da soggetti viventi, è stato riscontrato che nonostante molte biopisie avessero documentato una qualità dell’organo non soddisfacente, questi risultati non abbiano influenzato in modo significativo gli esiti di salute dei pazienti trapiantati.
Questo secondo gli autori potrebbe significare che, nella maggior parte dei casi, i reni giudicati non idonei e quindi scartati dai donatori viventi per via dei risultati della biopsia potevano essere e utilizzati.
Lo stesso concetto viene sostenuto e documentato per i reni prelevati da donatore cadavere che, pur avendo riportato risultati scadenti alla biopsia, una volta trapiantati si sono rivelati più efficaci  nel prolungare l’aspettativa di vita dei pazienti rispetto alla dialisi.
Questi risultati avrebbero indicato che anche i reni con i risultati peggiori alla biopsia potrebbero aggiungere mediamente 5 anni alla vita di un paziente.
“Il 75% dei reni da donatori deceduti con risultati bioptici sub-ottimali erano ancora funzionanti a 5 anni, suggerendo che i rigetti basati sui risultati bioptici potrebbero essere inappropriati e meritano ulteriori studi”, conclude Mohan.
Certamente il recupero di questi organi non servirà a colmare l’enorme divario tra domanda e offerta ma offre la speranza che le alte percentuali di scarto degli organi donati potrebbero diminuire in futuro, permettendo comunque di ridurre i tassi di mancato trapianto e di mortalità dei pazienti in lista d’attesa.
Bibliografia
Mohan S, Campenot E, Chiles MC, et al. Association between reperfusion renal allograft biopsy findings and transplant Outcomes. J Am Soc Nephrol 2017; 28: 3109-17.



INFLUENZA DI BMI E CORRISPONDENZA DI GENERE SULLA MORTALITÀ NEL TRAPIANTO DI CUORE
Garantire un’adeguata dimensione dell’allograft cardiaco è una delle considerazioni principali quando si assegna un cuore a un ricevente in attesa di trapianto.
Attualmente, il peso corporeo è la misura più utilizzata per la corrispondenza tra donatore e ricevente, tanto che le linee guida dell’International Society of Heart and Lung Transplantation (ISHLT) suggeriscono che il cuore di un donatore che pesa <70% del peso corporeo del ricevente non sia accettabile a meno che l’organo non sia di un donatore maschio oltre i 70 kg. (Costanzo MR, et al. The International Society for Heart and Lung Transplantation guidelines for the care of heart transplant recipients. J Heart Lung Transplant. 20101).
Tuttavia, altri autori sostengono che la differenza di peso corporeo spiega solo il 17% della variante interna del ventricolo sinistro e quindi nella pratica clinica la corrispondenza di peso varia molto tra i centri di trapianto(Chan BB, et al. Weight is not an accurate criterion for adult cardiac transplant size matching. Ann Thorac Surg. 1991).
Attualmente però sono emerse altre due varianti che entrano in gioco nel match donatore-ricevente:
• la prevalenza dell’obesità nella popolazione generale che è aumentata, di conseguenza si stima che il 20% dei destinatari del trapianto sia obeso o sovrappeso;
• il sesso dei destinatari che si sta imponendo come una considerazione supplementare.
Riguardo la prima non è noto se la corrispondenza di peso corporeo nei riceventi obesi debba essere considerata diversamente rispetto ai non obesi. Tuttavia si ritiene che l’obesità possa alterare il rapporto tra la dimensione cardiaca e il peso corporeo in questi soggetti rispetto ai pazienti non obesi e questo può portare a un sovradimensionamento degli organi per i destinatari obesi.
Riguardo la seconda variante è stato suggerito che le donne hanno una minore massa cardiaca per chilogrammo di peso corporeo rispetto agli uomini, per cui la corrispondenza dimensionale può essere più importante nei trapianti di genere maschile non corrispondenti.
Sebbene le linee guida attuali si basino su un’ampia esperienza clinica, ci sono pochi studi che esaminano se l’indice di massa corporea (BMI) e il sesso abbiano effetti differenziali sui risultati attesi relativamente alla corrispondenza corporea donatore-ricevente.
In questo studio gli autori hanno dunque cercato di determinare se ci sia una reale associazione tra i destinatari obesi e non obesi, il sesso, la corrispondenza di dimensione corporea e la mortalità a breve e lungo termine dopo il trapianto cardiaco. In particolare, i ricercatori hanno valutato l’influenza dell’indice di massa corporea (BMI) e della corrispondenza di genere sulla mortalità post trapianto.
Lo studio ha riguardato 52.455 trapianti di cuore adulti effettuati tra il 1994 e il 2013 presenti nel registro ISHLT. I pazienti sono stati suddivisi in base al BMI in tre sottogruppi: sottopeso (BMI <18.5); non obesi (BMI da 18,5 a 30); obesi (BMI> 30). Il target è stato l’individuazione di tutti i casi di mortalità a 30 giorni e cumulativa.
Nei pazienti non obesi la corrispondenza inappropriata di peso (IWM) è stata associata a una maggiore mortalità sia a 30 giorni, sia cumulativa (1 anno e 5 anni). Mentre, per i destinatari obesi, l’IWM non è risultata associata né alla mortalità a 30 giorni né a quella cumulativa.
I riceventi maschi di cuori femminili e le riceventi donne di allograft maschili hanno fatto registrare un aumento della mortalità cumulativa ma non sembra esserci alcuna interazione tra IWM e miss-match di genere.
Secondo i ricercatori ciò suggerisce che le linee guida attuali sono probabilmente troppo conservative nei casi di potenziali destinatari obesi. Questa deduzione sarebbe supportata anche da un precedente studio in cui si indicava che i pazienti obesi richiedono una minor massa cardiaca per chilogrammo del peso corporeo totale rispetto ai pazienti non obesi, e questo permetterebbe loro di tollerare una minor corrispondenza del peso corporeo rispetto ai riceventi non obesi (Osman AF, et al. The incremental prognostic importance of body fat adjusted peak oxygen consumption in chronic heart failure. J Am Coll Cardiol. 2000).
In sostanza i risultati dello studio indicano che il peso del donatore <70% rispetto a quello del ricevente aumenta la mortalità nei trapiantati non obesi, ma non in quelli obesi. Mentre la mancata corrispondenza di genere, che pure aumenta la mortalità indipendentemente dalla corrispondenza di peso tra donatore e ricevente, lo fa in misura minore e quindi non giustifica la raccomandazione di evitare completamente il disallineamento tra i sessi.
Bibliografia
Bergenfeldt H, Stehlik J, Höglund P, Nilsson J, et al. Donor-recipient size matching and mortality in heart transplantation: Influence of body mass index and gender. J Heart Lung Transplant 2017; 36: 940-7.



NUOVA METODICA PER IL MONITORAGGIO DEL TRAPIANTO
Utilizzando una combinazione di sequenze di DNA e  tecniche informatiche un team di ricercatori ha sviluppato un nuovo metodo per monitorare la salute dei pazienti trapiantati.
Un sistema che promette di fornire indizi precisi per diagnosticare il rigetto dell’organo in una fase molto precoce.
Iwijn De Vlaminck, della Cornell University di New Yor, autore senior dello studio presentato su PLOS Computational Biology, ha, infatti osservato che il DNA cell-free (essenzialmente frammenti di cellule morte derivate da un organo), può essere rilevato nel flusso sanguigno di un paziente e utilizzato come  marcatore di salute dell’organo. Ossia, più è elevata la concentrazione di DNA cell-free (cfDNA) nel flusso sanguigno maggiore sarà la probabilità che l’organo perderà la sua funzione.
Ma senza avere a disposizione il DNA del donatore (come spesso avviene) i medici non hanno alcun riferimento per identificare il cfDNA.
Ora il team di ricercatori della Cornell University e della Stanford University ha messo a punto un metodo per identificare il DNA cell-free anche in assenza di quello del donatore.
Eilon Sharon e colleghi avrebbero sviluppato un algoritmo informatico che stima il cfDNA derivato dal donatore consentendo così  d’individuare precocemente il processo di rigetto del cuore o del polmone trapiantati, con una precisione simile a quella ottenibile quandosono disponibili le informazioni dei donatori.
Il lavoro descrive un algoritmo elaborato per studiare riceventi e donatori strettamente correlat, uno scenario comune nei trapianti di midollo osseo e in quelli renali.
L’algoritmo utilizza i genotipi noti e tecniche di inferenza di relazione al modello in cui i frammenti cfDNA sono più probabili.
“In particolare, il modello individua la popolazione ancestrale più probabile del donatore e rileva i segmenti di DNA cell-free identici a quelli dell’organo per il fenomeno conosciuto come identità per discesa”.
Anziché ricorrere alle fastidiose biopsie, i ricercatori sostengono che il metodo basato sulla computerizzazione scientifica faciliterà la frequenza di monitoraggio del trapianto e aiuterà a salvare molte più vite.
Visto che attualmente l’aspettativa di vita mediana per un paziente trapiantato di cuore è di circa 11 anni e di  soli 5,3 anni per i trapiantati di polmone, il monitoraggio accurato ma non invasivo degli organi trapiantati è essenziale per la sopravvivenza a lungo termine dei pazienti.
“Siamo entusiasti delle molteplici applicazioni che questo metodo offre nella medicina dei trapianti, e siamo impazienti di vederlo utilizzato in ambito clinico”, ha dichiarato Iwijn De Vlaminck.
Bibliografia
Sharon E, Shi H, Kharbanda S, De Vlaminck I, et al. Quantification of transplant-derived circulating cell-free DNA in absence of a donor genotype. PLoS Comput Biol 2017; 13: e1005629.